Giorgio De Cesario: arte, materismo, solipsismo e colore immaginifico.
Arte e creatività nei volti in rilievo, tesi nella contemplazione del mondo circostante.
Materismo e solipsismo nei corpi flessuosi, quasi felini, forse in attesa di essere fotografati dall’occhio della mente di chi li guarda, il tutto su uno sfondo decorato dove il cromatismo delle colorazioni assume nuove sfumature ed intensità inquietanti.
Questa è l’arte di Giorgio De Cesario, un’espressione nuova eppure antica se consideriamo i particolari, la nettezza dei tratti, lo studio del colore.
L’estro dei volti in rilievo e i giochi cromatici, sottolineano un originale, distintivo ed esclusivo materismo e solipsismo nei soggetti delle tele che non è solo di origine filosofica, come ad esempio in “Sacro e profano” e “Paura di Vivere”, ma molto spesso riguarda temi e problemi di attualità come ne “La Depressa”, “Gli Extracomunitari”, “La Cometa di Halley”.
Filosofia e realtà che si compenetrano, che parlano a chi osserva e nello stesso tempo lo lasciano libero di interpretare, di fantasticare, di perdersi in pensieri da tanto tempo persi di vista per ritrovare infine se stessi nella mente, nel corpo e nell’anima.
LA PROCREAZIONE (1986) tecnica mista con volto in argilla sulla tela 50X70
In un sogno la nascita dei personaggi di Giorgio De Cesario
Esseri ignoti mi avevano portato nella loro sala da pranzo attraverso un lungo corridoio.
Dapprima avevano ammazzato tutti coloro che erano con me, e questo era stato prima che svenissi. Avevano strane pistole: emettevano dei raggi e i ragazzi colpiti ad uno ad uno stramazzavano al suolo e non si muovevano più.
Erano delle presenze che sentivo alle spalle ma che non mi parevano pericolose. Le vedevo soltanto io mentre disegnavo e i ragazzi dietro di me stavano composti come si deve stare in laboratorio. Avevo avvertito la loro presenza e mi ero girato, li avevo visti ed ebbi la conferma che soltanto io li potevo vedere perché gli altri ragazzi erano indifferenti alla loro presenza. I loro colli lunghi e quelle teste ovoidali e i volti brutti erano sorprendenti.
Poi ero svenuto e al risveglio ero in una stanza, a terra. Non pareva una cella, ma lo era. L’arredo era minimale, non c’erano finestre e nemmeno porte.
Una fetta della parete era scivolata via ed erano riapparsi, con i loro colli lunghi e inquietanti.
Camminavano davanti a me e dietro, lungo il corridoio. Le porte si aprivano quando ci avvicinavamo, senza nessun rumore. Seguivo i due strani soggetti che mi precedevano e dietro di me erano altri due. Non ero preoccupato, ma soltanto curioso di sapere dove mi portavano. Infine l’ultima porta si era aperta sulla sala da pranzo e ai lati di un lungo tavolo vi erano loro: gli uomini alla mia sinistra e le donne di fronte, sul lato destro del tavolo. Al capotavola opposto all’ingresso era Giovanna, una mia amica.
Erano in piedi quando ero entrato, e quello che intuivo essere il loro capo mi guardava con gli occhi senza vita in quel viso ovale alla fine di quel collo lungo.
Era brutto e brutti erano tutti i commensali, maschi e femmine e brutti.
Giovanna sembrava sconcertata ma non spaventata. Il capo mi aveva fatto cenno di sedere all’altro capo tavola e mi ero seduto e tutti loro erano ancora in piedi.
C’erano delle ciotole sul tavolo, ma non vedevo nelle ciotole, intuivo soltanto che c’era del cibo.
– Non siamo ostili. – il capo aveva detto, e io avevo pensato ai ragazzi morti nel laboratorio e lo avevo guardato con rancore
– Non sono morti. – aveva aggiunto intuendo il mio pensiero – Non uccidiamo; da tempo abbiamo superato la necessità della guerra.
Si era seduto e aveva tirato a sé una ciotola. Aveva fatto un cenno di invito e allora anche io avevo preso la più vicina che conteneva delle pasticche, delle capsule come quelle degli antibiotici. L’avevo guardato e lui aveva allungato la mano e ne aveva presa una. Muovendosi molto lentamente l’aveva portata alla bocca e l’aveva ingoiata, senza masticare. Giovanna e io ci eravamo guardati, poi avevo preso una delle capsule e l’avevo osservata diffidente.
– È cibo. Noi mangiamo così. – aveva preso un’altra capsula e l’aveva messa in bocca. Non c’era acqua sulla tavola e non beveva dopo aver inghiottito la pillola; mi chiedevo come potesse andargli giù per quel collo lungo e stretto senza incastrarsi nell’esofago.
Non c’era nessun rumore nella enorme sala da pranzo. Femmine e maschi contrapposti ai lati del tavolo prendevano quelle capsule e le portavano alla bocca.
Parevano movimenti stabiliti da tempo e lungamente provati, come i bracci meccanici delle scavatrici, sempre uguali. Le mani pescavano nelle ciotole e tenendo fra le dita le capsule, le braccia sollevavano quel cibo fino alla fine di quel lungo collo, verso la bocca. Non erano gesti naturali, ma calcolati da tempo.
– Viviamo in pace. – il capo disse e nessuno degli altri smise di mangiare – Da tempo non c’è più in noi il bisogno di competere, di opporci, e adesso siamo così:
volti brutti alla fine di colli scarnificati.
Trovavo difficile parlare e annuii.
– Da lungo tempo nessuno desidera più. Ci basta questo per vivere. – rigirò la capsula fra le dita – ma siamo come ci vedi.
– Cosa volete da noi? – era la prima volta che parlavo e non mi fidavo della voce, che uscì però chiara.
– Mangiamo ora. – disse e il tono era pacato.
– Cosa volete? – ripetei e mi guardò a lungo prima di appoggiare la pillola sul tavolo e girarsi verso di me.
– Avete dei tratti gentili. Siete armoniosi nelle vostre fattezze. Nei vostri movimenti c’è vita e nulla in voi sembra essere scontato, prevedibile, stabilito da tempo.
– Siamo diversi, sì. – dissi – Mangiamo cibo vero e ci è rimasta qualche passione.
– Noi no. – mi fissò e il suo viso bianco si fece vivace per un solo istante – Questo ci manca.
– Sì, – guardai i volti attorno alla tavola e quell’ingurgitare ritmato di pillole sembrava non avere fine – credo di sì.
– Vogliamo essere come voi. – disse.
– Non so se sarà possibile. – mossi adagio la testa – Lo eravate e adesso siete questo. Dovreste tornare indietro.
– Possiamo. Vogliamo essere come voi e per questo siete qui: per aiutarci.
– Come? – mi strinsi nelle spalle.
– Davvero non volete mangiare? – era gentile ma non sorrideva; non era ostile ma nemmeno cordiale. Parlava e non spiegava, chiedeva e non minacciava. Voleva e non diceva cosa.
Scossi la testa e lo fissai. Giovanna all’altro capo del tavolo non aveva mai parlato e sedeva rigida, aspettando.
– Allora? – chiesi e appoggiai le braccia sul tavolo. Era sicuro che non ci avrebbero fatto del male, ma qualcosa di grosso lo volevano e non doveva essere proprio una cosa semplice.
– C’è un solo modo. – disse. Non alzava mai la voce, non le dava mai un’inflessione diversa dalla prima volta che mi aveva parlato. Mi fissava quieto e aspettava.
– No. – dissi quando ebbi capito. Giovanna all’altro capo del tavolo mi guardava. Osservai i suoi occhi mentre realizzava, molto lentamente e con dispiacere.
– Da tempo questo è deciso. – il capo continuò – Avrete la vita per sempre, non ci sarà più angustia né luoghi angusti. La terra sarà un buon posto per vivere senza discordie e noi avremo la bellezza. Questo è il nostro patto con voi e lo rispetteremo, come voi rispetterete la parte che vi spetta.
Non avevo volontà per dire di no; ero come spettatore di me stesso in una storia non mia che qualcuno stava facendo diventare mia.
– Vi accoppierete con noi, – disse. Non era né una minaccia né un fatto eludibile. Era qualcosa che sarebbe avvenuto. Non provavo dispiacere, né rancore, né bisogno di ribellarmi a qualcosa che non volevo. Qualcosa mi spingeva ad accettare quanto doveva avvenire.
Nella cella non sapevo quanto tempo fosse passato; provavo a ricordare il discorso di poc’anzi ma era impossibile.
Vennero a prendermi ed erano tre. Percorremmo il corridoio e alla fine fui in una stanza dalle pareti rosse. Era un colore vivo che doveva ricordare la passione.
Se le pareti della cella erano metalliche, qui erano di legno pitturato, o di stoffa. Non c’era arredamento né alcunché al quale appoggiarsi. Dalla parete opposta a quella dalla quale ero entrato si materializzarono parti di forme umane: le gambe dai piedi al ginocchio, gli avambracci e ancora quel lungo collo sormontato dall’ovoide bianco, calvo e brutto. Non c’era necessità di parole e non parlai.
Le forme mi venivano incontro e intuivo che il resto del corpo era coperto da un velo dello stesso colore delle pareti. Nel centro della stanza le mani si alzarono incrociandosi davanti al petto. All’altezza delle spalle armeggiarono col velo che scese a terra scivolando lungo il corpo. Era una donna magra fino all’inverosimile, con la pelle cadente e vecchia; il prezzo da pagare per aver vinto la morte.
Come in un rituale mi sentivo spinto verso di lei. Non volevo avvicinarla: dovevo. Non avevo più i vestiti addosso mentre mi inginocchiavo davanti a lei.
Le mani ossute e rugose poggiavano sulla mia testa e imprimevano al mio corpo di scivolare all’indietro, in un movimento lento e indipendente da me, alla fine del quale ero sdraiato a terra. La scheletrica figura mi stava sopra e si accosciava lentamente. Sentivo il suo corpo premere sui mie fianchi e sul bacino.
Le sue mani di nuovo sulla mia testa mi imponevano di solleva la schiena da terra ed eravamo ora due tronchi vicini e verticali, sopra gli arti inferiori piegati.
Non accadeva nulla di quello che sappiamo, ma ci stavamo accoppiando. Nella mia mente sapevo di farlo ma nessuna emozione scendeva al corpo nè veniva dal corpo.
Era un atto freddo, inconsueto; doveva essere fatto e lo facevamo. Mi svegliai di colpo, fremente e sudato, ero nel mio letto ed ero solo, nessun essere dal capo ovoidale mi circondava. Avvertivo come un senso di nausea, ma il sonno mi vinse ancora e mi riaddormentai. Il giorno dopo sedetti come sempre al mio tavolo di lavoro e cominciai a disegnare: la mia mano andava da sola e il risultato fu l’opera “La Procreazione”, l’opera prima dalla quale prenderanno poi vita tutti i personaggi delle storie raccontate sulle mie tele. Gli esseri del mio sogno quindi avevano effettivamente ricominciato a vivere sulla terra ma non avevano perso la loro aridità e la loro meccanicità, l’assenza di sentimenti e sensazioni era ancora con loro. Il loro desiderio di diventare “umani” e “belli” come noi non era stato esaudito: impossibile farlo perché in realtà l’uomo contemporaneo ha ormai smarrito la vivacità della mente e non ricorda più cosa sia l’armoniosa bellezza del creato.